Cassazione: criteri distintivi per un contratto a progetto
La Cassazione, con sentenza n. 22289 del 21 ottobre 2014, ha ribadito come ogni attività umana, economicamente rilevante, può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato che di lavoro autonomo e che l’elemento tipico che contraddistingue il primo dei suddetti tipi di rapporto è costituito dalla subordinazione, intesa quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore di lavoro, con assoggettamento del prestatore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, ed al conseguente inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale con prestazione delle sole energie lavorative corrispondenti all’attività di impresa.
Viceversa, riferendosi al contratto di lavoro a progetto, le parti, prima di instaurare questa tipologia contratuale devono verificare alcuni criteri distintivi sussidiari, quali la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale ovvero l’incidenza del rischio economico, l’osservanza di un orario, la forma di retribuzione, la continuità delle prestazioni e via di seguito.
Sentenza n. 22289 del 21 ottobre 2014
Svolgimento del processo
Il giudice del lavoro del Tribunale di Napoli accolse la domanda proposta da D.A. nei confronti della A.M. s.r.l. e, ritenuto che tra le parti era intercorso un rapporto di lavoro subordinato da aprile del 2003 al 31.12.2004 con diritto del ricorrente alla qualifica di dirigente d’azienda industriale, condannò la società al pagamento degli importi di € 35.436,96. per differenze retributive, di € 53.733.00. per indennità di preavviso, di € 194.783.00, per indennità supplementare, e di € 12.498,23 per T.F.R.
Con sentenza del 12.7 / 13.12.2011, la Corte d’appello di Napoli, pronunziando sull’appello principale della società e su quello incidentale del lavoratore, ha parzialmente riformato la sentenza gravata, dichiarando il diritto del secondo a percepire il compenso denominato di “lavoro a progetto”, relativamente al solo anno 2004, per la somma di € 74.400,00 da corrispondersi in ratei mensili di pari importo e condannando la società al pagamento delle sole differenze non corrisposte dal luglio del 2004 nella misura complessiva di € 18.600,00, oltre accessori di legge.
La Corte è pervenuta a tale decisione dopo aver ritenuto che dal complesso degli elementi acquisiti era emersa unicamente la prova di un rapporto di consulenza professionale parasubordinato, dovendosi escludere ogni estremo di subordinazione.
Per la cassazione della sentenza ricorre il D. con un solo motivo.
Resiste con controricorso la A.M. s r.l.
Motivi della decisione
Con un solo motivo D.A. censura l’impugnata sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c. e degli artt. 61, 62 e 69 del d.lgs. n. 276 del 2003, nonché per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia ai sensi dell’art 360 nn. 3 e 5 c.p.c.
Ritiene il ricorrente che la Corte partenopea, nel tentativo di escludere il vincolo della subordinazione, ha erroneamente attribuito rilievo sostanziale al “nomen iuris” dei contratti intercorsi tra le parti, mentre ha omesso di trarre le dovute conseguenze dalla mancata indicazione nel contratto a progetto del relativo programma di lavoro ed ha altresì, ignorato le risultanze processuali sulle effettive caratteristiche della prestazione lavorativa, così come emerse dalle deposizioni testimoniali che, se tenute in debito conto, avrebbero condotto ad una diversa pronunzia in ordine alla configurazione giuridica dello stesso rapporto In particolare, secondo il ricorrente, dovendosi tener conto delle attività intellettuali che contraddistinguevano il rapporto in esame, il criterio da seguire per la corretta applicazione della norma di cui all’art. 2094 cod. civ. era quello di considerare i cosiddetti elementi sussidiari o complementari della subordinazione, da valutare complessivamente e comparativamente e non in maniera atomistica Il ricorso è fondato.
Invero, la Corte d’appello è pervenuta al risultato di escludere ogni ipotesi di dipendenza del D. rispetto alla società appellante e di ritenere, invece, sussistente un rapporto di consulenza professionale parasubordinato. basando il suo convincimento sostanzialmente sul “nomen iuris” del contratto intervenuto tra le parti, senza tener conto del fatto che il nome attribuito da queste ultime al rapporto tra loro in essere rappresentava solo uno degli elementi di valutazione per qualificarne la natura, dovendosi, invece, inquadrare giuridicamente il rapporto stesso sulla base delle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa. Si è, infatti, affermato (Cass. Sez. Lav. n. 16119 del 27/10/2003) che “ai fini della qualificazione del rapporto di lavoro come subordinato o autonomo, poiché l’iniziale contratto dà vita ad un rapporto che si protrae nel tempo, la volontà che esso esprime ed il “nomen iuris” non costituiscono fattori assorbenti, diventando viceversa il comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto elemento necessario non solo ai fini della sua interpretazione, ma anche utilizzabile per l’accertamento di una nuova diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell’attuazione del rapporto e diretta a modificare singole clausole contrattuali e talora la stessa natura del rapporto inizialmente prevista; tale principio si applica anche nel caso in cui il rapporto trovi la sua origine in una legge che ne abbia previsto o favorito l’instaurarsi, dovendosi anche in tale ipotesi accertare se il rapporto, pur sorto in base ad una volontà che, dando attuazione alla legge, ne abbia recepito anche la qualificazione, abbia poi avuto una esecuzione che, per la sua diversità dalla previsione normativa, esprima una nuova sopravvenuta volontà negoziale, la quale conferisca nuovo contenuto al rapporto.”
Di tutto ciò non ha tenuto conto la Corte d’appello che, nel riferirsi al progetto di lavoro, ha evidenziato che esso appariva sufficientemente enunciato nel contratto sottoscritto dalle parti, nel quale il corrispettivo risultava congruamente commisurato, non solo con riguardo al risultato avuto di mira, ma anche alla professionalità del ricorrente, come appurato nel supplemento d’istruttoria testimoniale, mentre le pretese creditorie del lavoratore non potevano ritenersi fondate sulla base di un’unica testimonianza in qualche modo a lui favorevole.
Si osserva, però, che anche nel contratto di lavoro a progetto disciplinato dall’art. 61 del d. Igs. 10 settembre 2003, n. 276, che prevede una forma particolare di lavoro autonomo, caratterizzato da un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale, riconducibile ad uno o più progetti specifici, funzionalmente collegati al raggiungimento di un risultato finale determinati dal committente, ma gestiti dal collaboratore senza soggezione al potere direttivo altrui e quindi senza vincolo di subordinazione, il “nomen iuris” non costituisce un fattore assorbente, rilevandosi, invece, necessaria la disamina del comportamento delle parti posteriore alla conclusione del contratto per l’accertamento di una nuova diversa volontà eventualmente intervenuta nel corso dell’attuazione del rapporto e diretta a modificare talora la stessa natura del rapporto inizialmente prevista (v. ad es. Cass. Sez. lav. n. 15922 del 25/6/2013).
In ultima analisi la Corte d’appello non ha fatto riferimento alle risultanze processuali rilevanti ai fini della individuazione della natura giuridica del rapporto in questione, soffermandosi solo sugli aspetti formali dello stesso e trascurando di eseguire una disamina comparativa di tutti gli elementi utili alla verifica della sussistenza o meno del vincolo della subordinazione.
Invero, non va dimenticato che ogni attività umana economicamente rilevante può essere oggetto sia di rapporto di lavoro subordinato che di lavoro autonomo e che l’elemento tipico che contraddistingue il primo dei suddetti tipi di rapporto è costituito dalla subordinazione, intesa quale disponibilità del prestatore nei confronti del datore, con assoggettamento del prestatore al potere organizzativo, direttivo e disciplinare del datore di lavoro, ed al conseguente inserimento del lavoratore nell’organizzazione aziendale con prestazione delle sole energie lavorative corrispondenti all’attività di impresa (tra le numerose decisioni V. Cass. 3 aprile 2000 n. 4036; Cass. 9 gennaio 2001 n. 224; Cass. 29 novembre 2002, n. 16697; Cass. 1 marzo 2001, n. 2970, Cass. 15 giugno 2009 n. 13858 e Cass. 19 aprile 2010 n. 9251).
Viene, però, precisato, in tali pronunzie che l’esistenza del vincolo va concretamente apprezzata con riguardo alla specificità dell’incarico conferito; d’altronde, proprio in relazione alle difficoltà che non di rado si incontrano nella distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato alla luce dei principi fondamentali ora indicati, si è asserito che in tale ipotesi è legittimo ricorrere a criteri distintivi sussidiari, quali la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale ovvero l’incidenza del rischio economico, l’osservanza di un orario, la forma di retribuzione, la continuità delle prestazioni e via di seguito. È stato, di conseguenza enucleata la regula iuris – che va in questa sede ribadita – secondo la quale, nel caso in cui la prestazione dedotta in contratto sia estremamente elementare, ripetitiva e predeterminata nelle sue modalità di esecuzione, oppure, all’opposto, nel caso di prestazioni lavorative dotate di notevole elevatezza e di contenuto intellettuale e creativo, al fine della distinzione tra rapporto di lavoro autonomo e subordinato, il criterio rappresentato dall’assoggettamento del prestatore all’esercizio del potere direttivo, organizzativo e disciplinare può non risultare, in quel particolare contesto, significativo per la qualificazione del rapporto di lavoro, ed occorre allora far ricorso a criteri distintivi sussidiari, quali la continuità e la durata del rapporto, le modalità di erogazione del compenso, la regolamentazione dell’orario di lavoro, la presenza di una pur minima organizzazione imprenditoriale (anche con riferimento al soggetto tenuto alla fornitura degli strumenti occorrenti) e la sussistenza di un effettivo potere di autorganizzazione in capo al prestatore.
Pertanto, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio del procedimento alla Corte d’appello di Napoli che, in diversa composizione, esaminerà di nuovo, tenendo conto dei principi sopra richiamati, tutte le risultanze istruttorie non valutate e provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte d’appello di Napoli in diversa composizione